Una storia su Jack the ripper dove già dall'inizio si intuisce come andrà a finire. Eppure il film tiene alta la tensione, insinua dei dubbi su quello che vediamo e su quello che crediamo di sapere. Rilevante anche come lettura sociale.
Hugo Fregonese era affascinato dall’idea del vagabondo che vive all’ombra del cappio (“Non m’importa se m’impiccano” è una battuta chiave di Blowing Wild, realizzato anch’esso nel 1953). In questa rivisitazione della storia di Jack lo Squartatore è un’intera città in stato di frenesia collettiva a tenere in mano il cappio, alla ricerca di qualcuno da incolpare degli omicidi delle prostitute. Nel mondo di Fregonese il predatore è anche preda di tormenti. Il romanzo da cui è tratto il film, The Lodger (1913) di Marie Belloc Lowndes, aveva già ispirato il film omonimo del 1926 che consacrò Alfred Hitchcock. Quando la Fox acquistò i diritti fu John Brahm a proporne una prima cupa versione nel 1944. Decisa a sfruttare il controllo esclusivo che esercitava sul neonato CinemaScope, la Fox lasciò la produzione di dieci film non Scope e a basso costo alla Panoramic Productions dell’indipendente Leonard Goldstein. Con la rosa di talenti Fox a sua disposizione (compresi gli scenografi Lyle Wheeler e Leland Fuller e il direttore della fotografia Leo Tover), Fregonese realizzò un adattamento molto più ricco della maggior parte delle produzioni a colori e Scope della Fox, a conferma del suo talento nel trasformare piccoli film in studi sull’oscurità dell’animo umano. La lettura che Fregonese dà del personaggio di Slade, il patologo divenuto omicida che Jack Palance interpreta con pathos tormentato, è decisamente freudiana, fatalista e consapevole. Criminale garbato ed eloquente, è ben conscio del complesso di Edipo che si cela dietro la sua pulsione a uccidere donne che somigliano a sua madre. “In realtà non ci sono criminali” proclama Slade, “ci sono solo persone che fanno ciò che devono fare perché sono ciò che sono”. Qui più che mai Fregonese utilizza inquadrature dall’alto e dal basso per esprimere normalità e terrore, staticità e fuga. Con l’eccezione dei numeri musicali, ben eseguiti ma decisamente incongrui rispetto alla trama e all’epoca in cui essa si svolge, il film è una delle più convincenti incursioni di Fregonese nel tema della solitudine. L’ambiguo finale in cui l’omicida scompare nel fiume che “scorre pacifico verso l’infinito”, per usare le parole di Slade, è magnifico.
Ehsan Khoshbakht
CAST AND CREDITS Sog.: dal romanzo The Lodger (1913) di Marie Belloc Lowndes. Scen.: Robert Presnell Jr., Barré Lyndon. F.: Leo Tover. M.: Marjorie Fowler. Scgf.: Lyle Wheeler, Leland Fuller. Int.: Jack Palance (Slade), Constance Smith (Lily Bonner), Byron Palmer (ispettore Paul Warwick), Frances Bavier (Helen Harley), Rhys Williams (William Harley), Sean McClory (poliziotto), Leslie Bradley (poliziotto), Tita Phillips (Daisy), Lester Matthews (ispettore capo Melville). Prod.: Robert L. Jacks per Panoramic Productions, Inc. 35mm. D.: 86’.
IN BREVE Titolo Italiano Una mano nell'ombra Regia: Hugo Fregonese Anno: 1953 Paese: USA Durata: 86' Versione del film Versione inglese
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